ShabangShabang » Giorello http://shabang.xoom.it/wordpress Il bauletto virtuale Mon, 06 May 2013 09:00:41 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.4.1 Solo tre cose non servono alla scienza http://shabang.xoom.it/wordpress/pensiero-intransigente/giorello/solo-tre-cose-servono-alla-scienza/ http://shabang.xoom.it/wordpress/pensiero-intransigente/giorello/solo-tre-cose-servono-alla-scienza/#comments Fri, 29 Jun 2012 08:29:13 +0000 shabang http://shabang.xoom.it/wordpress/?p=474 ↓ Read the rest of this entry...]]> Per Charles Sanders Peirce sono tre le cose che non possiamo mai sperare di raggiungere con il ragionamento: la certezza assoluta, l’esattezza assoluta e l’universalità assoluta. Solo la critica può consentire piena indipendenza all’indagine scientifica. Il ritenere che tra le pieghe della scienza debba annidarsi un atteggiamento fallibilistico del sapere deve essere lo stile di vita dello scienziato. Al contrario, per evidenti ragioni, il ‘conservatorismo’ è totalmente fuori luogo ed è la storia che ci insegna che ogni progresso è avvenuto perchè il radicalismo ha dato quell’urgenza e quell’impazienza necessarie per sperimentare, per scoprire nuove realtà.

Oggi assistiamo ad un ritorno degli strali neoconservatori, soprattuto inerenti al rapporto tra fede e ragione. Darwin ci ha mostrato che il metodo della ‘selezione naturale’ è una simulazione delle azioni del ‘Creatore’. La teoria evoluzionistica rappresenta l’autentico fondamento della comprensione razionale del mondo. Anche la chiesa cattolica non disconosce le prove scientifiche che starebbero alla base dei processi evolutivi, ma quello che viene confutato è il principio secondo il quale la ‘filosofia evoluzionistica’ sia l’unica spiegazione possibile. Non solo, è convincimento largamente diffuso tra le gerarchie ecclesiastiche, che la cultura scientifica dominante fa ritenere non possibile l’esistenza di altri livelli di pensiero oltre a quello razionale. Sulla base di questi errati convincimenti, viene rifiutato a priori ogni tipo di discorso. Occorre riconoscere che, anche se ci fosse da parte della comunità scientifica un simile atteggiamento prevaricatore, durerebbe poco perché non troverebbe cittadinanza nella pratica della scienza stessa, come dimostrato ormai da qualche secolo.

Forse a questo punto, la questione non riguarda il rapporto tra fede e razionalità, ma tra fallibilismo e infallibilismo, tra una verità che non vorrebbe salvare neanche se stessa e la verità che promette salvezza a chiunque si sottometta. Questione di lana caprina? Non direi, si tenga conto che alla base di scelte pratiche di vita stanno anche scelte filosofiche. Quando si dice che la vita è ‘sacra’, solitamente non ci si riferisce ad un fatto scientifico, ma quando si parla di fecondazione assistita, di statuto dell’embrione umano e della diagnosi preimpianto ecc., o si lasciano andare le cose secondo il caso o si eseguono interventi responsabili. Per quale ragione si vuole precludere ogni indagine ed ogni cura? Perchè uno stato etico/teocratico dovrebbe avere il diritto/dovere di vincolare scelte così personali? Perchè i cittadini dovrebbero vivere in quello stato di eterna inferiorità, che impedirebbe loro di assumere le proprie responsabilità?

La verità è che si vuole dividere e discriminare per ‘imperare’ e reprimere.

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Il sogno di Galileo http://shabang.xoom.it/wordpress/pensiero-intransigente/giorello/il-sogno-di-galileo/ http://shabang.xoom.it/wordpress/pensiero-intransigente/giorello/il-sogno-di-galileo/#comments Thu, 07 Jun 2012 07:38:25 +0000 shabang http://shabang.xoom.it/wordpress/?p=369 ↓ Read the rest of this entry...]]> Galileo aveva ipotizzato nel ‘Dialogo sopra i due massimi sistemi’ un’idea rivoluzionaria per quel tempo: i cittadini si sarebbero dovuti riconoscere in base alle loro ‘competenze’ senza barriere religiose, di razza e di genere. La ‘comunità scientifica’ era di là da venire (comparirà solo nell’Ottocento), ma già si stavano buttando le basi per il futuro, che con mille impedimenti, avrebbero costituito lo scheletro del sentire scientifico e del vivere moderno.

Il problema era ed è la formazione degli ‘esperti’, di coloro cioè che, nella specialità da loro scelta, eccellono per competenza. Ciò riporta all’educazione ed all’insegnamento che nella scuola e nell’università formano i giovani. Esistono però anche le ragioni per una sana ‘divulgazione’ della conoscenza che i ‘media’ solitamente adottano per rivolgersi alle persone adulte, che hanno ormai oltrepassato l’età scolare e che, pur inconsapevolmente, chiedono di essere tenuti aggiornati.

Troppo spesso, però, riscontriamo nella divulgazione dei ‘media’ una piatta sottomissione ai voleri dettati, come sosteneva John Milton, dalla ‘tirannide papale’ e della chiesa cattolica, con procedimenti simili a quelli in uso al tempo di Galileo, che rispondono ad una cieco uso del potere. Una eccessiva insistenza sugli aspetti scandalistici dell’impresa tecnico-scientifica, dimenticando la paziente fatica dei ricercatori che rendono quegli ‘scandali’ possibili. La sensazione è che gli interventi vengano eseguiti solo per il piacere di mettere dei paletti, di limitare il campo d’azione e, quindi, per controllare. La scienza è per definizione insofferente a qualsiasi forza che la costringa in confini precostituiti, pur non sottraendosi alla critica ed alla contestazione. Questa regola è già presente nel suo DNA, ma se esistessero ostacoli sul proprio cammino, ha anche il compito di eliminarli. Cosa c’è di meglio per qualsiasi creazione dello spirito umano di venire criticata, contestata o revisionata? Ciò è sinonimo di vita interiore, ma, lascirsi morire a casa propria perchè non si è assolutamente sicuri che non ci sia qualche pericolo in agguato per la strada, è di per sè una condanna ad un perpetuo stato di non azione, che non può essere accettato, soprattutto anche perchè sarebbe il principale scopo di chi ‘mette i bastoni tra le ruote’.

Quando esiste una entità sociale creata dagli uomini, incontrollabile, che ostacola sul nascere ogni tentativo divulgativo, perchè cozza con la propria egoistica visione del mondo, allora l’impresa tecnico-scientifica risulta quasi espropriata della sua essenza.

Bisogna lavorare instancabilmente per contrastare questo disegno della ‘nuova contro-riforma’. Molte persone oggi sono ‘specialisti’ troppo ‘ignoranti’ per consegnare il futuro della specie umana nelle mani di sedicenti scienziati ‘credenti’, che fanno il gioco delle gerarchie cattoliche, come quel tal professore a capo del CNR, costretto a dimettersi e venuto agli onori della cronaca quanche tempo fa, per prese di posizione demenziali. Aveva equiparato la tragedia vissuta dalle popolazioni per un terremoto (non l’ultimo in Emilia-Romagna, ma quello in Giappone di qualche mese fa appunto) ad un castigo divino.

Dobbiamo liberarci dell’ingombrante presenza degli eredi che hanno condannato Galileo.  ‘Al rogo’ … ‘Al rogo’:-)

Quando la chiesa cattolica sarà un ectoplasma, allora Galileo, dal profondo di una dei gironi infernali in cui è stato relegato, eseguirà con noi, uomini del ‘libero pensiero scientifico’, più e più ‘salti di gioia’ gridando:<< chi non salta … è, è>>

 

 

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Scienza, liberalismo e democrazia: conflitto o armonia? http://shabang.xoom.it/wordpress/pensiero-intransigente/giorello/scienza-liberalismo-democrazia-conflitto-armonia/ http://shabang.xoom.it/wordpress/pensiero-intransigente/giorello/scienza-liberalismo-democrazia-conflitto-armonia/#comments Mon, 21 May 2012 13:49:22 +0000 shabang http://shabang.xoom.it/wordpress/?p=216 ↓ Read the rest of this entry...]]> Giulio Girello ha scritto:

Nel poscritto alla Logica della scoperta scientifica, una delle opere più impegnative di Popper, viene evocata la storia di quel soldato che un giorno scoprì che tutto il suo battaglione, a parte lui naturalmente, non marciava al passo. Popper ha molta simpatia per questo soldato che è l’unico che marcia al passo, e quindi l’unico nel giusto, mentre tutti gli altri sono in disordine e confusione. Questa storiella raccontata da Popper è un elogio, portato all’eccesso, del dissenso: uno solo contro tutti può lo stesso avere ragione.

Se vogliamo trasferirla in campo scientifico, la battuta di Popper suona più o meno così: non vale l’argomento che uno può avere torto contro la scienza intera, perché potrebbe essere la scienza intera ad avere torto, e quell’uno avere ragione. C’è forse una sfumatura di orgoglio di cittadino in questa posizione, cioè l’idea che tutti quanti possano aver sbagliato, dagli antichi ai nostri contemporanei e io solo essere nel giusto. Questo è un principio che come vedremo è fortemente destabilizzante. Tuttavia questo è un principio che ha la sua importanza nella crescita della conoscenza scientifica: che i pochi possano avere ragione contro i molti, o che addirittura uno possa essere in disaccordo contro tutti gli altri, e pure avere ragione.

Se vogliamo risalire più indietro di Popper, vi ricordo quel passo del Saggiatore di Galileo Galilei in cui dice che l’argomento del consenso nell’impresa scientifica non è un elemento probante, e soprattutto nulla equivale mai all’audacia e all’ingegno del singolo. Galilei dice anche che nella filosofia naturale – la scienza – noi non siamo come i cavalli olandesi (da tiro) ma come i cavalli berberi, che eccellono singolarmente contro tutti gli altri. Quindi nella scienza è l’eccellenza del singolo che va premiata, il coraggio appassionato con cui difende le proprie teorie.

Questa posizione sembrerebbe a prima vista individualistica e perfettamente conciliabile con un credo liberale portato all’eccesso. Molto meno con una concezione democratica, perché ci fa pensare che la scienza non sia democratica e che l’impresa scientifica possa procedere in maniera produttiva e costruttiva laddove uno solo si erge contro tutti. Valga come esempio proprio il caso di Galileo Galilei che da solo introduce, nel 1610, nuovi modi di osservazione, e sfida, nel 1613, la comunità scientifica sulla natura delle macchie solari. Egli teorizza, contro l’establishment del suo tempo, che la matematica si applica allo studio dei corpi circostanti (Il Saggiatore, 1623); difende Copernico contro i suoi detrattori tolemaici e aristotelici nel 1632, e infine rifonda la meccanica e la scienza dei materiali nel 1638. E non c’è una di queste conquiste di Galileo Galilei che non sia avvenuta con un contrasto profondo contro la maggioranza delle persone che rappresentavano allora la repubblica delle lettere, diremmo oggi la ricerca scientifica.

Questo elogio di Galileo è abbastanza familiare a Popper stesso, che vede nel dissenso un elemento fondante della nostra stessa tradizione moderna. Direi non l’unico, ma senza dubbio un elemento molto forte, che va di pari passo con il bisogno di dare spazio al libero individuo che critica apertamente il battaglione con cui non si trova al passo. Sono elementi che si trovano in alcuni scritti degli anni Cinquanta, poi pubblicati in Congetture e confutazioni e nella migliore tradizione della Riforma protestante. L’appello alla coscienza individuale di Lutero e di Calvino, a “mezza bocca”, poi in altri riformatori detto in modo più aperto e coraggioso che fa sì che l’arbitro diventi la coscienza e non l’istituzione.

Naturalmente Popper non rappresenta soltanto questa matrice del pensiero dell’esperienza cristiana e religiosa, anche se è un punto di riferimento importante per un autore, in generale poco sensibile come Popper alla dimensione religiosa dell’esistenza. Tuttavia, una precedente scuola di dissenso era stata già sperimentata in Occidente, molti secoli prima della Riforma: sei-sette secoli prima della venuta di Cristo, in una piccola regione dell’Asia Minore, nota come Ionia. Qui fiorisce una scuola di filosofi per la quale la critica non è maledizione, ma per la quale lo scontro intellettuale è fattivo di nuove idee, e colui che la pensa diversamente dal maestro è un nuovo maestro, non è un traditore del maestro originario. Questa è la scuola del pensiero presocratico: Talete, Anassimandro, personaggi che criticano e migliorano il predecessore, per aver più amica la verità di coloro che li hanno iniziati alla riflessione filosofica. E’ questo miracolo greco che Popper ha in mente, oltre all’esperienza storica della Riforma protestante. Lo dice molto chiaramente in un capitolo di Congetture e confutazioni in cui, appunto, da Talete ai giorni nostri la tradizione è quella della libera discussione critica.

Ai tempi di Cromwell, in Inghilterra, si diceva che il dibattito tra le varie sette religiose doveva essere by words and not by swords (e cioè: con la parola e non con la spada): queste sono le matrici culturali, in una tradizione che si può chiamare in senso lato umanistica di richiamo alla cultura greca. Dall’altra parte, le esperienze anche laceranti della modernità europea (la Riforma protestante e le guerre di religione) portano a quel diffuso clima illuministico che favorisce la libera discussione critica contro l’autoritarismo. Questo elogio della libera critica e dell’impresa scientifica, così fattivo e fecondo, appare strettamente legato alla capacità individuale, a prima vista assai poco democratica, anche perché consenso in molti casi può significare fenomeno di conformismo. E il conformismo è temuto come la morte da Karl Popper: molto meglio la torre di Babele; se non ci fosse stata bisognava inventarla.

Questo atteggiamento si ritrova in non pochi grandi rappresentanti dell’impresa scientifica e in particolare in tutti coloro i quali con l’autorità hanno incrociato il loro ferro, come Galileo Galilei. Questo riferimento alla critica sembra dar adito a una forma di esasperato individualismo. Tuttavia in Galileo troviamo anche un correttivo a quella che sembra essere una posizione così fortemente individualistica: nel 1632, in quel Dialogo sopra i massimi sistemi che gli costò la condanna dell’Inquisizione, fa dire a Simplicio, che rappresenta il punto di vista dei conservatori, che questo modo di filosofare – allude a quello di Galileo – tende alla sovversione di tutta la filosofia naturale e a disordinare il cielo, la terra e tutto l’universo. La risposta di Salviati: “Non vi pigliate pensiero né del cielo né della terra, né temiate la loro sovversione e nemmeno della filosofia. La filosofia non può se non ricevere beneficio dalle nostre dispute, perché se i nostri pensieri saranno veri, nuovi acquisti saranno fatti, se falsi, col rigettarli maggiormente verranno confermate le prime dottrine”.

Questo punto mette in luce come il dissenso è solo il primo passo per un’articolazione della critica, che consiste nel far confrontare diverse opinioni nel portare i pro e i contro, e il punto interessante consiste nel fatto che non c’è più un solo soldato che non marcia al passo e il battaglione è in errore, ma ci sono almeno due soldati che sono in disaccordo su come va tenuto il ritmo della marcia e ciascuno dà opinioni pro e contro e alla fine si vedrà chi ha ragione e chi torto. Quindi, da questo punto di vista, la posizione di Popper non è quella di semplice articolazione del dissenso ma, almeno per quanto riguarda l’impresa scientifica, è quella di un dialogo critico, appunto come sono i dialoghi di Galileo dove vengono portate argomentazioni a favore del copernicanesimo e contro il copernicanesimo in difesa dei punti di vista tradizionali. Alla fine deve essere l’onesto lettore a decidere se stare da una parte o dall’altra. Entrambe le parti ne trarranno giovamento; perché se una parte viene scoperta in errore può rimediare, mentre, se l’altra parte riesce ad avere la vittoria, confermiamo la fiducia di questo quadro concettuale.

Quindi è un elogio della controversia scientifica quello che Galileo propone ed è quello che Popper conosce molto bene ed è disposto a sottoscrivere. La controversia scientifica diventa motore della crescita della conoscenza. Si tratta di mettere le cose in modo che l’errore possa emergere. Anzi, se una teoria non è passibile di essere mostrata falsa, non fa nemmeno parte della comunità delle teorie considerate scientifiche. Questo è un punto di rovesciamento della tradizione epistemologica classica. Da Cartesio a Kant il punto di fondo è come evitare l’errore; anzi, per Kant il punto di fondo è come mai la gente cade in inganno se noi siamo in qualche modo esseri che sono predisposti alla verità. Il problema di Popper è il contrario di quello di Kant: senza errori non ci avvicineremmo alla verità, il nostro problema è come imparare dai nostri errori. Nel riconoscere la natura fallibile della conoscenza scientifica dobbiamo migliorare i nostri quadri concettuali: così successe quando Galileo criticò i suoi avversari aristotelici, e quando Newton criticò Galileo. Quindi non c’è ragione di pensare che l’impresa scientifica non debba andare avanti così come è andata per secoli, cioè per audaci congetture e la loro falsificazione.

Questa posizione epistemologica, nota come fallibilismo, e che ha oggi molte varianti nel dibattito epistemologico, è sempre stata vista per Popper come una componente morale. Non è che abbia mai cercato di dimostrare matematicamente il fallibilismo, la sua posizione era quella di dirci che se veramente volete giocare al gioco della scienza, dovete accettare la regola di esprimere le vostre teorie in modo che gli altri, o anche voi stessi, siano in grado di cogliervi in fallo. Questo è un punto importante, perché se noi volessimo in qualche modo fondare il fallibilismo, sarebbe curioso cercare un fondamento certo e indubitabile di un atteggiamento mentale che ci invita a considerare tutte le nostre teorie come transitorie e correggibili. Quindi Popper si sarebbe ben guardato dal cercare una dimostrazione del fallibilismo. La scelta del fallibilismo è una questione sostanzialmente etica, è sul terreno della ragionamento plausibile non certo sul terreno della dimostrazione in senso stretto della cogenza. Nessun ci obbliga a giocare al gioco della scienza, possiamo anche non farlo, molte civiltà non l’hanno fatto, hanno guardato alla tradizione critica nata da Talete come una pericolosa eresia, quindi non è affatto inscritto nella natura umana che si debba procedere scientificamente nel senso ipercritico.

C’è un aneddoto molto divertente che la dice lunga. Talete non è solo l’iniziatore della tradizione critica, ma secondo alcuni l’iniziatore della geometria, in particolare con il teorema del fascio di rette parallele tagliato da due rette che riesce a risolvere un problema che attanagliava il faraone egiziano: come misurare l’altezza di una piramide senza salirci sopra. Il faraone dà a Talete un premio in danaro, e un consigliere poco dopo gli si avvicina per dirgli di andarsene, perché i tiranni non amano la geometria. Punto importante che ribadisce Galileo nel Saggiatore, quando dice che chi non bazzica la geometria è costretto ad aggirarsi per oscuri labirinti e di diventare preda delle opinioni altrui, cioè è costretto a seguire l’autorità di altri invece di ragionare di testa propria. La scienza è la nemica dei potenti, i quali se volessero dirci che un triangolo ha gli angoli interni maggiori di 180° lo imporrebbero a coloro che non lo sanno.

Come è una scelta essere critici, lo è anche quella di essere democratici e ci avviciniamo al discorso sulla democrazia da cui avevamo preso le mosse. Anche qui Popper può esserci di aiuto, egli ha dedicato alla democrazia una grandissima opera, La società aperta e i suoi nemici, scritto alla fine della seconda guerra mondiale e poi ripensato negli anni della cosiddetta guerra fredda, in cui quella che Popper chiama open society è la nostra società democratica senza la tradizione egemone che chiude tutto l’orizzonte concettuale, aperta alle innovazioni e al cambiamento attraverso la critica. Quindi questo elogio della critica ci rimanda alla stessa esperienza scientifica di cui abbiamo parlato.

Democrazia è un termine dalle molte sfumature; quella che noi intendiamo come democrazia non è esattamente la democrazia greca di cui parla Pericle, ma i teorici della democrazia moderna hanno voluto applicare questa parentela, e gli storici inglesi dell’Ottocento, che idealizzano Pericle, sono i maestri della filosofia politica di Popper, e quindi ritroviamo un’aria di famiglia. Però democrazia può essere letta in molti modi. Prendiamo la definizione dal dizionario critico di filosofia più corrente, che dice : Democrazia, ovvero stato politico in cui la sovranità appartiene alla totalità dei cittadini senza distinzioni di nascita di ricchezza o di capacità. Popper criticherebbe a questo tipo di definizione la parola sovranità, perché se non concepiamo la democrazia come forma particolare di sovranità non ci sarebbe nessuna difficoltà a pensare che la democrazia decide sovranamente di cancellarsi. Questo è un problema che ha preso Popper da Platone, che lo chiama paradosso della libertà, dice che nelle città libere l’eccesso della libertà provoca poco a poco una sorta di risentimento in alcuni esponenti del mondo politico e alla fine viene fuori o un’oligarchia o un tiranno.

Dunque l’eccesso di libertà porta alla sua negazione. Come successe in Italia nel 1926, una democrazia può benissimo assistere alla nascita di un regime autoritario votato in modo democratico, esperienza che conoscerà anche la Germania nel 1933. Questa critica è assai diffusa alla democrazia rappresentativa degli anni Venti e, se non vado errato, anche nelle considerazioni politiche di Thomas Mann. Anche oggi ci troviamo di fronte a regimi in cui può andare al potere un partito o un gruppo che per prima cosa abolisce la democrazia che gli ha permesso di arrivare al potere. Questo è il paradosso della democrazia (anche se naturalmente si potrebbero mettere al bando gli antidemocratici in modo che non si presentino alle elezioni).

Vi sono dunque delle somiglianze tra il principio del fallibilismo e il principio della democrazia. La risposta di Popper è molto interessante; servirci di questa apparente circolarità, per venirne fuori e non per restarci dentro, e di nuovo questo tipo di circolarità mette in luce la profonda affinità della democrazia con l’impresa scientifica. Come se ne esce fuori? Popper ritiene che bisogna fare due qualificazioni.

Primo punto: che una teoria della politica non è necessariamente una teoria della sovranità politica. Non si deve dire necessariamente come dobbiamo governare ma come dobbiamo difenderci dai governanti, esattamente come l’impresa scientifica, che non ci dice come dobbiamo confermare le nostre teorie, ma come dobbiamo smentirle. Il nostro problema non è di fondare una sovranità o di fondare una teoria, ma è quello invece di criticare le forme di governo esistenti, ed eventualmente difenderci dai governanti. Se noi non concepiamo più la democrazia come una forma di sovranità, l’argomento della circolarità che la democrazia sovranamente può provocare il proprio annullamento non è un’obiezione, come non è un’obiezione essere un monarchico e dire che, per esempio, un re ad un certo punto può abdicare in favore di un Repubblica. Per cui l’errore primo è concepire la filosofia politica come teoria dei fondamenti della sovranità; senza fondamenti anche la democrazia è senza fondamenti e qui sta la sua forza.

Secondo punto: qualificazione della democrazia in positivo è che noi dobbiamo in qualche modo basare la nostra preferenza per la vita democratica sulla decisione di evitare qualsiasi forma di tirannide e di resistervi se si presenta. Per Popper questo fatto ha il vantaggio che non si vincola minimamente alle forme particolari in cui si esercitano le istituzioni democratiche, che strutturano ed esercitano il loro potere con varie regole, come per esempio, ma non sempre, la decisione per maggioranza. Se un giorno per maggioranza la democrazia decide di suicidarsi vuol dire che questa volta abbiamo fallito, non siamo riusciti con i metodi di ingegneria costituzionale abitualmente usati, ma questo non fa venire meno la nostra volontà di resistere alla tirannide.

A questo punto vi renderete conto che il parallelismo tra impresa scientifica e società democratica è esemplarmente ricostruito; una decisione di evitare il dogmatismo, in un senso, e di evitare la tirannide dall’altro. In entrambi i casi quindi si tratta di prendere atto del carattere etico sia della vita scientifica, sia della vita democratica, e, siccome ci siamo affezionati, lottare per essa. Questo è il senso della decisione di resistere alla tirannide, e direi che con questo si ricostruisce anche una profonda unità nel pensiero di Popper che non è stato un filosofo della politica per caso, o un filosofo della scienza prestato alla politica, ma ha orientato coerentemente gran parte della propria riflessione proprio su questi temi, e che appunto ha trovato nell’elemento della difesa del dissenso e nell’elogio della critica l’elemento unitario dell’impresa scientifica e dell’impresa democratica.

Come spesso capita ai pensatori fortemente legati alla tematica della critica, Popper è stato criticato. Ma si tratta di un elemento positivo, perché non ha suscitato approvazioni servili ma critiche estremamente interessanti e stimolanti. Due osservazioni che ci permetteranno di collegare questo tipo di riflessioni a problemi della vita attuale.

La prima riguarda la tecnica, che è stato detto è un grande strumento di modificazione della comunicazione sociale e quindi anche un elemento di forte modificazione della politica (non ci sarebbe stata la Riforma protestante senza la stampa). Non ci sarebbero, forse, alcune forme attuali di democrazia senza Internet,, viceversa ci sono anche casi in cui la tecnica sembra essere fortemente pericolosa e può indurre a un conformismo di massa invece che a uno sviluppo dello spirito critico. E’ il caso della televisione e forse una delle ragioni della più recente popolarità di Popper è stata la posizione estremamente drastica nei confronti della tivvù. Non è stata messo però abbastanza in evidenza l’accento sul discorso generale che Popper faceva, che era primario: la televisione, così com’è praticata, è una variante di tirannide anche quando il magnate della tivvù, attraverso i sondaggi cerca di capire cosa la gente vuole. La gente è “costretta” a scegliere tra un ventaglio di offerte predeterminate da un centro, e quindi non ha la possibilità di farci capire cosa vuole. Soprattutto, diceva Popper, la gente non esiste, come entità collettiva non c’è. Dal punto di vista di individualismo metodologico che Popper ha proposto, la gente non esiste. Sembra una piccola cosa, ma bene evidenzia l’inglese people are (termine singolare e verbo plurale), le persone sono…

La seconda osservazione è già implicita in quello che dicevo prima: che la tivvù si presenta come una forza irresistibile. L’unica cosa che la democrazia non tollera sono le forze irresistibili, come la tirannide (il tiranno esce fuori delle misure). Quindi la opposizione di Popper alla televisione va vista nel quadro della sua opposizione più generale a qualsiasi forma di potere irresistibile. Popper è perfettamente coerente con il suo punto di vista generale, anche in questi ultimi argomenti sulla tivvù. E forse coloro che sono sia a destra che a sinistra, nel nostro Paese, non hanno messo bene in luce la coerenza di fondo con il resto del quadro libertario che Popper presenta.

Siamo poi veramente sicuri che l’impresa scientifica abbia ancora quel respiro critico che Popper le attribuisce guardando ai grandi classici della scienza? Leggo in una prefazione di Riccardo Chiaberge a un libro dedicato alla clonazione: “Agli albori della embriologia, ai tempi di Darwin, gli scienziati sentivano ancora il bisogno di trarre conclusioni filosofiche dalle loro scoperte. Oggi l’imperativo nel mondo della scienza è uno solo: ogni ricercatore si concentra su ogni ovulo che sta manipolando e non guarda più in là. La filosofia è ormai assente dal suo campo visivo e dato che il suo successo accademico dipende dal suo numero di pubblicazioni è invalsa l’usanza di rateizzare il risultato di un esperimento spezzettandola in tanti articoli da scaglionare nell’arco di mesi o di anni, proprio come faceva Dickens quando pubblicava il suo racconto a puntate, solo che qui il valore narrativo è ben più modesto e sovente, come nel caso della fusione fredda, l’uso spregiudicato dei media precede il vaglio critico della comunità scientifica”. Chiaberge, da buon giornalista, fa semplicemente una descrizione dello stato di cose esistenti, ma voi capite bene che una ricerca scientifica in cui si oscilla tra uno specialismo, dove le regole della produttività divorziano da quell’atteggiamento critico, e una presentazione sui media, in cui l’atteggiamento critico è dato per quello che porta di sensazionale, questo tipo di divaricazione porterebbe, dice Chiaberge, a separare democrazia e impresa scientifica, proprio perché quell’elemento che muniva in passato l’atteggiamento critico viene cancellato.

Nel caso della tivvù, con una visione settaria del senso critico; nel caso dello specialismo scientifico, con la perdita del senso critico: è addirittura una condizione per far carriera. Questo è un elemento molto importante : lo storico della scienza Gerry Holdon di cui è stato pubblicato un bel libro su Einstein da Feltrinelli, ha dichiarato che proprio un tipo di divorzio come questo finirebbe per rappresentare la maggiore minaccia che l’America democratica di Jefferson abbia conosciuto fin dal tempo delle baionette britanniche durante la guerra di secessione.

Cosa possiamo dire su queste tematiche alla luce di quanto abbiamo precedente esposto, tenendo conto appunto della lezione popperiana sull’insegnamento critico? Direi che si possono usare le parole di Popper con le quali concludeva un paragrafo della sua Logica : “Il gioco della scienza è il principio senza fine, chi un bel giorno decide che le asserzioni scientifiche non hanno più bisogno di nessun controllo e si possono ritenere definitivamente verificate si è ormai ritirato dal gioco”.

Proviamo a sostituire alla parola scienza la parola democrazia, alle “asserzioni scientifiche” i “governanti” e a “verificato” “provato”. Il gioco della democrazia è di vedere il principio senza la fine. Chi un bel giorno decide che i governanti e i loro atti non hanno più bisogno di un controllo e si possono ritenere approvati in modo definitivo, si ritira dal gioco.

Questo punto ci fa ben capire dove viene meno lo spirito fallibilista che è uno spirito di creatività e di ricerca continua attraverso la critica, da cui è nato il nostro Occidente. “Con l’idolo della certezza crolla una delle difese dell’oscurantismo che ha sbarrato la strada alla crescita della conoscenza, perché la venerazione che noi tributiamo a questo idolo è impedimento non soltanto all’arditezza delle nostre domande, ma anche al ricorso dei nostri controlli. La concezione sbagliata della scienza, cioè il dogmatismo, si tradisce proprio per il suo smodato desiderio di essere l’unica nel giusto, infatti non il possesso della conoscenza e cioè il possesso della verità irrefutabile fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica persistente e inquieta.”

Questa citazione di Popper mette bene in luce l’idea che poi era quella di Galileo: il controllo e il consenso si costruiscono attraverso il dissenso. In questa ottica era importante tener conto delle buone ragioni del soldato che non va al passo con il suo battaglione. Se la vogliamo dire in un altro modo, visto che né la scienza né la democrazia vanno alla ricerca di fondamenti assoluti, potremmo fare nostra questa battuta, che secondo me coglie bene lo spirito democratico: “Se incontri per la tua strada una forza irresistibile opponiti con il doppio della forza, e riuscirai a vincere”. E’ una bellissima frase pronunciata dal compagno Stalin: ogni tanto un pizzico di stalinismo può anche andare bene.

(www.fondazione-einaudi.it/Download/lezione%20Giorello.doc)

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La verità scientifica http://shabang.xoom.it/wordpress/pensiero-intransigente/giorello/la-verita-scientifica/ http://shabang.xoom.it/wordpress/pensiero-intransigente/giorello/la-verita-scientifica/#comments Sat, 19 May 2012 08:57:58 +0000 shabang http://shabang.xoom.it/wordpress/?p=177 ↓ Read the rest of this entry...]]> Intervista con Giulio Giorello (1998)

Intervistatore: Oggi parleremo di cosa si intende per verità in campo scientifico con il professor Giulio Giorello  insegnante di Filosofia della Scienza all’Università degli Studi di Milano. “Filosofia” è un termine che significa “amore del sapere”. Forse non c’è sapere così importante per noi, così incisivo sulle nostre esistenze, come la scienza.
La verità scientifica, la verità nella matematica, la verità nella fisica, nella chimica, nella biologia e in tutte le discipline normalmente si insegnano anche nella Scuola Media Superiore, ma è l’insegnamento all’Università, con altra veste ed altri aspetti, che te li fanno comprendere e che poi si riprendono nella vita adulta.
Non è un tema facile. Cosa sia mai la verità scientifica può spaventare; forse però il modo migliore per accostarsi è tener presente che questa verità non è soltanto “di parole”, ma è qualcosa “di fatti”, anzi di manufatti, di congegni, di artifici, di apparecchi..

Intervistatore: Che cosa si intende oggi per verità scientifica?

Giorello: La risposta più naturale sarebbe quella di dire che la verità scientifica è ciò che abitualmente gli scienziati credono e accettano. Naturalmente questa risposta lascia aperto il campo a una serie di ulteriori domande
Facciamo un esempio. La comunità scientifica di un tempo, o almeno quelli che allora si chiamavano i “filosofi della natura”, credeva che il vuoto non esistesse: il vuoto è il “non essere”, e quindi non c’è. Per cambiare idea ci vollero degli eretici (in un qualche modo), cioè dei contestatori di quello che veniva insegnato.
Noi potremmo dire che la verità scientifica è quello che viene controllato in un qualche modo dalla comunità scientifica. Non è soltanto quello che viene creduto, ma proprio quello che viene controllato con l’esperimento o con il ragionamento intellettuale.
Galileo Galilei parlava di “sensate esperienze e certe dimostrazioni”. Le certe dimostrazioni sono quelle della geometria e più in generale della matematica, mentre le sensate esperienze sono le esperienze dei nostri sensi, e anche quelle che facciamo in laboratorio.
Forse le verità scientifiche non sono così definitive come spesso si crede. Tante volte quello che noi riteniamo una verità scientifica ben controllata è qualcosa che, con una strumentazione più raffinata, viene ridotta di portata, e diventa meno universale. Questa “verità” è sostituita da una verità un po’ più profonda.
Noi riteniamo che una verità scientifica non sia altro che un enunciato che in un qualche modo noi possiamo controllare e che può essere anche scartato e sostituito da un altro, che ci permette di capire meglio le esperienze che facciamo, le osservazioni che vengono registrate.
In questo senso, quello che ci importa non è tanto il possesso di un qualche cosa, ma la tensione, lo sforzo che facciamo.
Ciò che io ho controllato lo puoi controllare anche tu, perché – come dicevano giustamente Galileo, Cartesio, Pascal, e tutti i grandi padri fondatori della scienza moderna – qualunque persona che sia in grado di intendere e di volere, e che abbia volontà di applicarsi, è in grado di fare e controllare quell’esperienza. La scienza è pubblica e controllabile da chiunque. Se è controllabile e pubblica, è anche insegnabile.

Intervistatore: Che rapporto c’è tra verità e realtà?

Giorello: Ogni persona sarebbe portata a credere che una cosa è vera se “fotografa bene”, “rispecchia bene” la realtà che ci circonda. Ma la realtà ha più d’una faccia, ha più d’un aspetto che può essere analizzato. Faccio un esempio, perché è meglio sempre che parlarsi per esempi. Tutti conoscono il modello dato da Galileo della caduta dei gravi. Tutti i corpi cadono secondo la stessa cinematica, con la stessa accelerazione. Quindi la stessa equazione descrive tanto la caduta d’una piuma quanto la caduta di una palla di cannone. Tuttavia, se guardiamo l’esperienza comune, non succede così. Perché? Perché la legge di Galileo, così come l’ho enunciata, è incompleta. Bisogna aggiungere, per esempio: “nel vuoto”. E’ cosa interessante che torniamo ancora al vuoto, perché questa intuizione di Galileo è stata sviluppata prima che la generazione successiva, quella dei Pascal o dei Boyle o del nostro italiano Torricelli, facessero gli esperimenti con le pompe aspiranti.
Bisogna allora dire: “Attenzione, questa legge di Galileo vale soltanto, soltanto se si è tolto via il mezzo” (il mezzo sarebbe la sostanza appunto attraverso la quale la palla di cannone e la piuma cade), per esempio l’aria. “Rendere il più possibile rarefatta l’aria”, diceva Galileo. Che vuol dire? Che la nostra immagine scientifica della realtà non rispecchia mai completamente la realtà, perché bisogna dimenticare qualche fattore di perturbazione: in questo caso, l’aria.
Le nostre leggi, in realtà, sono molto più approssimate che esatte, perché bisogna sempre tener presente che ci sono un mucchio di fattori perturbanti.
Questo vale già per una scienza come la matematica. Pensiamo a cosa succede a studiare, ad esempio, un processo del vivente, lo sviluppo di un embrione per esempio, oppure pensiamo a quella che si chiama la “dinamica di una popolazione”, per esempio come si equilibrano prede e predatori in una situazione geografica. Oppure pensiamo a una situazione economica costruita dall’uomo o a una situazione sociale. Man mano che si prendono in considerazione oggetti sempre più complessi, i fattori di perturbazione diventano tantissimi. La realtà è forse infinitamente più complessa e non smette mai di sorprenderci. La gente che si esaltava con le grandi conquiste della meccanica newtoniana, aveva delle informazioni sul nostro universo molto diverse da quelle che noi abbiamo ora. Per esempio, aveva delle idee diverse sul numero dei pianeti, non riteneva che l’universo fosse grande o vecchio quanto noi oggi lo riteniamo, ecc.
La natura ha continuato a sorprenderci. Questo senso di sorpresa della natura, che ci mostra come le nostre immagini siano in qualche modo anche sfocate e vadano continuamente corrette, è forse quello che rende l’impresa scientifica un’avventura, un’avventura affascinante.

Intervistatore: Che rapporto c’è oggi giorno tra verità scientifica e verità filosofica? Ossia come si pongono gli scienziati rispetto alla filosofia?

Giorello: Io credo che ormai ci sia una sostanziale differenza fra filosofia e scienza, anche se esse sono nate insieme con l’antica Grecia.
La differenza è questa: molti scienziati hanno la sensazione di una crescita del loro sapere, anche drammatica, anche segnata da rivoluzioni scientifiche. Il filosofo ha piuttosto la sensazione di riproporre gli eterni interrogativi. Oggi non facciamo più un esperimento per dimostrare l’esistenza di Dio, e forse nemmeno ci lasciamo convincere da una dimostrazione dell’esistenza di Dio, anche se in passato se ne sono fatte alcune, che erano argomenti logicamente anche molto interessanti.
Forse ogni scienziato ha la sua personale filosofia o forse, come diceva Albert Einstein, lo scienziato è un opportunista, che, quando ha bisogno di una filosofia particolare, se la prende e la usa, salvo poi passare ad un’altra, a seconda di dove lo sta guidando la propria ricerca.

Intervistatore: Lei pensa che la verità scientifica si tramuti in progresso per l’umanità?

Giorello: Dipende da cosa si intende per progresso. Se per progresso s’intende la crescita della conoscenza, credo che sia indubbio che oggi ne sappiamo un po’ di più dei tempi di Newton, e che Newton ne sapeva di più di Galilei. Se come progresso s’intende il successo tecnologico, anche qui credo che il mondo in cui noi viviamo stia a dimostrare che il progresso c’è stato.
Il buon vecchio Bacone diceva che Aristotele è stato importante, però tre invenzioni hanno cambiato il mondo, ai suoi tempi: la bussola, la stampa e la polvere da sparo.
Il mondo è cambiato in meglio, secondo le nostre speranze e i nostri auspici? Qui ritorna il problema del codice morale. Può darsi che, dal nostro punto di vista, il progresso tecnologico non sia un progresso in assoluto; può darsi che noi siamo terrorizzati dalle grandi capacità della tecnica, più che della scienza, di uccidere.
Enrico Fermi diceva che, dopo tutto, la comparsa della bomba atomica e poi di ordigni sempre più potenti aveva in qualche modo frenato almeno le grandi potenze dallo scatenarsi in conflitti locali. Dipende da che cosa intendiamo noi come progresso a livello morale.

Intervistatore: Per il benessere dell’umanità non è meglio in certi campi fermare la ricerca, la ricerca della verità scientifica? Mi riferisco, in particolare, alla genetica.

Giorello: Sì, ci sono degli scienziati che la pensano così. C’è stato un genetista che ha rinunciato a lavorare nel campo della sperimentazione genetica. Anche queste sono scelte molto legate, io credo, alla coscienza individuale. Stiamo attenti che questo non diventi una filosofia di Stato, perché ci sono anche esempi di società che, per paura dell’innovazione scientifica e tecnologica, hanno fermato la ricerca e poi sono state sopraffatte.

Intervistatore: Attualmente qual è il rapporto tra scienza e religione?

Giorello: Io credo che oggi il rapporto tra scienza e religione sia un rapporto di neutralità, come diceva, tra l’altro, un filosofo scomparso di recente, Paul Feyerabend.
Oggi cerchiamo di invadere il meno possibile i campi reciproci. Non è stato sempre così.
Coloro che sostenevano che la terra è rotonda, che è concezione già greca per molti versi, furono osteggiati dalle autorità religiose, che invece pensavano a una terra piatta, per un lungo periodo di tempo. Poi però sono venute le navi di Colombo. Colombo era convinto di fare la volontà di Dio, e che uno dei rilievi che egli vede in uno nei suoi viaggi fosse la montagna del Purgatorio. Però queste montagne del Purgatorio son state poi sfruttate e economizzate.
Quindi, in un qualche modo, si ha l’impressione che la religione si sia un po’ ritirata nelle sue pretese. Noi sappiamo che il Sommo Pontefice ha chiesto “scusa” a Galileo Galilei per la condanna del 1633, quando Galilei fu condannato per aver sostenuto, in scienza, qualcosa di diverso da quello che volevano i suoi censori francescani e domenicani.
Può darsi che questo divario sia destinato ad aumentare. Noi non lo sappiamo. Oppure è possibile che la scienza ritorni a riproporre proprio quei temi che possono accendere una nuova religiosità.

Intervistatore: Si può dire che parlare di verità scientifica e di verità in genere è un parlare di convenzioni, di convenzioni che nascono da una necessità di intendersi?

Giorello: Il momento delle convenzioni è importantissimo, ma non è l’unico. Prendiamo il caso appunto della matematica. Noi matematici fissiamo i postulati di partenza, di Euclide per esempio, ma poi i problemi che vengono fuori sfuggono al nostro controllo. Non è che noi siamo dei padroni assoluti.
Il fatto che il quinto postulato di Euclide – quello secondo il quale per un punto, fuori da una retta data, passa una e una sola retta parallela alla retta assegnata – non sia deducibile dagli altri, è un fatto contro cui il matematico sbatte i denti, esattamente come sbatte i denti anche lo scienziato empirico quando ha un’anomalia o qualche cosa che non gli torna.
Quindi noi siamo padroni delle nostre convenzioni, ma fino a un certo punto. Le convenzioni lavorano per conto loro. Anche il matematico si trova di fronte a problemi oggettivi. Non c’è solo convenzione, ma c’è anche una resistenza della materia: è questa che rende la questione così affascinante perché, se tutto fosse convenzione ed arbitrio, la scienza sarebbe solo un giochetto. Invece non è un gioco, è una sfida continua dell’intelligenza: con i numeri, con i laboratori, e qualche volta con i laboratori e con i numeri insieme.

Intervistatore: Non si può parlare allora di una verità immortale, universale, visto che ogni epoca ha le sue scoperte?

Giorello: Io penso che, proprio perché una teoria scientifica ha una “pretesa di universalità”, essa potrà essere superata nel futuro. Quando Newton formula la legge della gravitazione universale, egli è convinto che valga per tutte le masse e a qualunque distanza. La meccanica newtoniana doveva valere per qualunque velocità. Poi noi abbiamo capito che, per le velocità vicine a quelle della luce, ci vuole una meccanica più sofisticata.
L’aspirazione è sempre verso qualcosa di universale, anche se Newton e Einstein sono persone nate in un contesto culturale ben preciso, con un certo tipo di credenze, con un certo tipo di educazione, che senza dubbio ha influito sullo stile con cui hanno comunicato le loro scoperte. Quindi io credo che noi dobbiamo riconoscere da una parte la relatività delle teorie scientifiche, ma anche prendere sul serio la loro pretesa di universalità: altrimenti sarebbero una semplice espressione culturale. Invece la scienza vuole essere qualcosa di più, vuole essere anche il fondamento, per esempio, di una tecnologia di successo e vuole spiegare appunto come è fatto il mondo, anche in casi molto difficili.

Intervistatore: Quali sono i presupposti necessari per trovare una verità scientifica?

Giorello: Si può rispondere soltanto in questo modo: avere una società abbastanza illuminata dal finanziare molti programmi di ricerca, magari in concorrenza: lasciare che cento fiori fioriscano, e che il dibattito corra nella maniera più libera e più spregiudicata possibile.
Quando dico “più libera e più spregiudicata” volevo riprendere proprio una cosa che dicevano loro prima, e cioè che c’è un momento della comunicazione scientifica, che va oltre quello che è semplicemente per “gli addetti ai lavori” e arriva a largo pubblico. Il largo pubblico recepisce certe cose, forse non certe altre. Quindi si pone un problema anche di educazione alla scienza.

Intervistatore: Professore, il fatto che in alcuni campi esistono più verità scientifiche, a volte in contraddizione tra di loro, non può indurci a pensare che non esiste una verità assoluta, cioè una verità assoluta scientifica?

Giorello: Io non riesco bene a capire che cosa s’intenda per verità assoluta.
Io credo che abbiamo punti di vista sempre più sofisticati e raffinati che si confrontano. Se questi punti di vista arrivassero all’assolutezza e alla perfezione, non avremmo più la ricerca.
Io credo che la verità assoluta sarebbe quieta e tranquilla come la pace dei cimiteri. Io invece ritengo che noi viviamo proprio per metterci continuamente in discussione.
Quello che ci interessa non è il possesso: è la ricerca.

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 Giorello: Mi presento, sono Giulio Giorello, insegno Filosofia della Scienza all’Università degli Studi di Milano e normalmente non mi occupo di Fede e ragione, cioè non mi occupo dell’argomento di cui parliamo oggi. Allora come mai ci sono finito dentro? Mi sembra giusto dirlo. Ci sono finito dentro in veste, come dire, di imputato, perché un giorno il mio amico, il teologo Bruno Forte, di Napoli, mi ha coinvolto in un libro che ha scritto per l’editore milanese, Raffaele Cortina, che si intitolava Trinità per atei, cioè come spiegare la Trinità, se mai la Trinità si può spiegare, a gente che non solo non crede nella Trinità, ma non crede forse nemmeno in Dio. E appunto, volendo scrivere un libro Trinità per atei,Bruno aveva bisogno di alcuni atei con cui dialogare. Allora ha beccato Vincenzo Vitiello, Massimo Cacciari e il qui presente. Quindi noi abbiamo fatto un po’ quelli che dovevano dare a Forte le battute, come si fa nelle comiche, dove c’è il comico di base e poi ci sono quelli che gli danno la battutina per poter far successo. E noi ci siamo presi appunto il compito di fare da spalla come si dice in gergo teatrale. Ne è venuto fuori un dialogo molto strano, nel senso che da una parte Bruno Forte ha scoperto che dentro di lui, sotto sotto, covava ogni tanto un piccolo ateo, e forse gli atei hanno scoperto che dopo tutto la religione, o meglio il mondo della fede, gli interessava. Allora la nostra sfida di oggi è di cercare di vedere se riusciamo a interessarci di questo, ancora una volta non scegliendo soltanto i temi generali, ma provando a vedere come anche un tema così diverso dai soliti si può incarnare e realizzare in degli oggetti, per esempio, che hanno avuto una portanza simbolica. Non so, la croce, per esempio, ha una portata simbolica, credo molto forte. Non solo, ma come anche ha mosso la fantasia di artisti, di poeti, di registi cinematografici. Cominciamo con una scheda, in cui vedremo un pochettino come questi temi si realizzano in immagini, forse hanno una presa sul pubblico più forte che il discorso.

……….Si visiona la scheda.

Giorello: Beh quello che abbiamo visto era il montaggio di due film differenti. Uno è il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini e l’altro invece è un musical Jesus Cristh Supestar. Perché li abbiamo messi insieme? Li abbiamo messi insieme perché mettono in contrasto due aspetti della tradizione religiosa a cui noi siamo maggiormente abituati, che è il cristianesimo. Non dico che sia l’unica religione, questo mi sembra evidente, insomma, anche nel nostro paese, però è senza dubbio quella che ha più marcato la nostra civiltà, il nostro modo di pensare, il nostro modo di parlare. E ci sono due aspetti che sono fortemente in contrasto nei due spezzoni, che avete visto. Pasolini insiste sul dolore, sulla sofferenza, sulla tragedia senza sbocco.

Cristo sulla croce è un uomo che muore e la tragedia è senza soluzione. Cioè il dolore e l’insulto restano fortemente espressi anche dalla figura della madre piangente. E’ un cristianesimo senza speranza, un cristianesimo del dolore, ed è tragico. L’altro invece è un cristianesimo che canta quello che è uno dei momenti di vittoria. “Tuoi sono il potere e la gloria”. E’ un cristianesimo, se volete, un po’ più protestante, un po’ più americano. Allora c’è questo tema che è continuamente giocato, nel cristianesimo: da una parte Cristo è Dio che si fa uomo, come uomo soffre e conosce la tragedia finale, la morte. D’altra parte però c’è invece il Dio trionfatore.

STUDENTESSA: Volevo sapere se la fede condiziona, se pone dei limiti alla ricerca scientifica, e, in caso affermativo, in che modo?

Giorello: Io non lo so se la fede porti limiti alla ricerca scientifica. La fede è un dono che l’individuo riceve. Ci sono scienziati credenti, ci sono scienziati non credenti, ci sono atei, ci sono agnostici, ci sono cristiani, musulmani, eccetera. E’ vera una cosa, che, quando l’istituzione ecclesiastica è diventata un potere, in alcuni contesti questo potere ha di fatto ostacolato la crescita della scoperta scientifica. E questo soprattutto nella nostra storia. Noi conosciamo il grande scontro, per esempio, sulle ipotesi che stanno alla base del nostro universo, sui meccanismi del nostro universo, e sappiamo benissimo che Galileo Galilei fu condannato, nel 1633. Galileo era uomo di fede, però fu condannato lo stesso.

STUDENTESSA: Come Tommaso, nella elaborazione della sua filosofia, aveva comunque adottato il metodo della conciliazione tra il naturalismo averroista e il misticismo francescano, secondo Lei, oggi è possibile, in una società come la nostra, dove i radicalismi sono così forti, cercare di conciliare appunto fede e ragione?

Giorello: Ma intanto gli averroisti nel mondo dell’Islam ebbero i loro problemi. Averroé ebbe le sue grane molto forti con i teologi più oltranzisti. Anche i francescani ebbero i loro problemi, perché un certo tipo di spiritualità francescana fu represso pesantemente, la spaccatura tra conventuali, più pronti al compromesso con Roma, e gli spirituali. Quindi francescani e averroisti hanno già una storia tormentata. Oggi credo che questa storia sia più tormentata che mai, non tanto, di nuovo, io penso, per questioni di fede contro ragione, ma per questioni di istituzioni. Le Chiese sono grandi istituzioni politiche e anche la ricerca scientifica è una grande istituzione ormai. Questa situazione oggi non è più nelle condizioni di Galileo Galilei, non deve lottare per i propri spazi. I propri spazi li ha già, ha già la propria egemonia, sulla stessa nostra vita quotidiana. Noi pensiamo a noi stessi in termini scientifici. Quando pensiamo ad esempio il nostro corpo, lo pensiamo in termini medici. Quando pensiamo alla nostra mente, la pensiamo magari come se fosse un computer, in termini informatici. Ora, di fronte a questo potere della scienza, la Chiesa ha fatto secondo me, un forte arretramento. Fino a quanto dura questo arretramento e che tipo di problemi morali verranno fuori? Questa credo che sia una delle grandi sfide del terzo millennio. Una sfida aperta.

STUDENTESSA: Ma, se esiste una differenza fra fede e dottrina, quale delle due entra più spesso in relazione con la scienza?

Giorello: Ma sa, la dottrina è un insieme di frasi, di teorie, e quindi questa sicuramente, secondo me, rischia di più di entrare in conflitto con l’impresa scientifica. La fede, io insito, è per chi ce l’ha – io non ce l’ho -, ma per chi ce l’ha credo che sia un grande dono. E un dono non entra in conflitto con niente. Non entra in conflitto con la matematica, con la fisica e nemmeno con la filosofia, insomma. E’ un grande dono. Il problema è che invece la dottrina no. La dottrina vuol dire come è fatto il mondo, insomma, oppure vuol dire come dobbiamo comportarci. Questi sono modi di vedere il mondo e modi di comportarsi, che non sono d’accordo con quella dottrina. Credo che ce ne rendiamo conto insomma, in qualunque campo della nostra vita, da quello politico alla sfera sessuale, insomma.

STUDENTESSA: Scusi, Lei ci ha detto che non ha fede. Ma ne ha avuta? Quindi può immaginare cosa prova chi ha fede, quindi?

Giorello: Questa è una bella domanda, anche molto inquietante, La ringrazio per averla fatta. Io non so se ho avuto una fede da ragazzo, perché quello che uno riceve per tradizione è una fede implicita, è una qualche cosa che è quasi un’abitudine. Credo di non avere fede adesso, non so se l’avrò in futuro, perché nessuno può ipotecare il futuro. Ho preferito definirmi in quel libro con Bruno Forte, ateo e non agnostico, cioè non uno che non sa, ma da uno dall’altra parte, perché mi sembrava troppo facile dire: “Sono agnostico e me ne lavo le mai”. So benissimo che l’ateismo può essere anche questo, una fede. Quello però non lo vivrei come fede, se mai lo vivrei come domande. Cioè evidentemente chi non ha la fede si pone lo stesso delle domande e non sa trovare la risposta e non smette di domandare. Questo non è una condizione felice, ma non è detto che siamo nati per esser felici insomma.

STUDENTE: Lei può dare una spiegazione a quei tanti giovani che oggi si allontanano dalla fede e quindi magari hanno un atteggiamento molto, diciamo, contrariato verso la Chiesa e verso le istituzioni ecclesiastiche in genere, ma, in particolare verso le religioni. Quindi c’è un allontanamento dei giovani? Lei ha una spiegazione a questo proposito?

Giorello: No, non del tutto. Nel senso che tu mi chiedi perché i giovani si allontanino dalla fede. Io non so se si allontanano di più i giovani o i vecchi. Se questo allontanamento sia per un problema profondo dentro di sé o semplicemente per una certa insofferenza nei confronti delle istituzioni, delle Chiese costituite. In molti casi alle religioni tradizioni si contrappongono delle forme di religiosità, non meglio definite, le tendenze new age cosiddette. Di nuovo io non ho una risposta da darti precisa. Credo che la religione, come legame forte, sia in molti casi entrata in crisi. Ritengo che l’inizio di questa crisi però sia molto antica, che forse si accosta sul Cristianesimo. E’ con la stessa figura di Cristo che la religione entra in crisi, perché Cristo pone la divinità direttamente dentro la natura e la storia. Io ho scelto tra i vari oggetti questo qui che rappresenta una croce irlandese, una delle croci celtiche, perché mi sembra emblematica di come, nel ciclo della natura, coi suoi ritmi, colle sue regole, coi suoi modi propri di sviluppo, si inserisca invece, come una partizione netta dello spazio del tempo, l’evento cristiano. E’ una grande sfida questa. Il Cristianesimo ci porta Dio su questa terra, lo fa protagonista di un processo storico ben definito, in un’epoca che è ben precisa, e poi dà all’umanità il compito di vedere, di verificare in un qualche modo questo atto d’amore, che è poi l’incarnazione. Qui è il problema, ma di fondo: è stato vinto o è stato sconfitto il Cristianesimo? Un teologo, che è recentemente scomparso, che era anche un grande e caro amico, Sergio Quinzio, riteneva che il Cristianesimo fosse stato sconfitto. Aveva scritto proprio un libro dedicato alla sconfitta del Cristianesimo. Io vorrei che voi sentiste insieme cosa ne pensava Quinzio e vedere se siamo d’accordo o meno.

-Si ascolta il pensiero di Quinzio, sotto forma di intervista:

INTERVISTATORE: Nel libro intitolato La sconfitta di Dio, Lei ricostruisce la storia biblica come una successione di sconfitte e di fallimenti subiti da un Dio debole, impotente di fronte al male e fin dalle origini minacciato. Nella cabala si dice che la stessa creazione non è una manifestazione di potenza, ma un contrarsi di Dio, che si autolimita per far posto al mondo. Sergio Quinzio vuole ripercorrere brevemente questa storia di sconfitte, che inizia con la creazione, si prolunga nella crocifissione e culmina nella tragedia di Auschwitz, espressione suprema dell’impotenza di Dio?

QUINZIO: Certo. Ma indubbiamente la creazione implica una perdita di potere assoluto di Dio, perché evidentemente se Dio crea l’uomo libero, in qualche modo si espone al rischio di un uomo che disobbedisca alla sua legge. Quindi creando si apre – non è che necessariamente si compie il male -, ma si apre una possibilità che il male si compia, perché evidentemente si può disubbidire alla legge di Dio, quindi può entrare il peccato, può entrare la colpa, può entrare l’ingiustizia, può entrare la morte. Quindi, ad ogni modo, questo, questo atto iniziale del creare è già un atto attraverso il quale Dio nega in parte la sua onnipotenza. La nega anche in altri modi, perché, per esempio, si apre la possibilità di una richiesta da parte dell’uomo. L’uomo lo prega e in qualche modo, secondo tutta la tradizione ebraica, la preghiera ha il potere di modificare il decreto di Dio, Dio aveva disposto una cosa, ma l’uomo lo prega e Dio cancella il suo decreto. Quindi ecco che Dio in qualche modo ha una certa impotenza, una certa che, non si è saputo il termine paolino, un certo abbassamento, un certo annichilimento, che comincia già nel momento, nel momento della creazione.

STUDENTE: Io volevo chiederLe se, a differenza col mondo cristiano, nell’Islam vi è un certo rapporto che condiziona l’agire delle persone, tra fede e ragione, in quanto sappiamo che comunque le leggi della religione islamica condizionano il modo di agire e di pensare dell’individuo credente!

Giorello: Sì, io non sono un esperto dell’Islam. La mia sensazione è che nel santo Corano e nella stessa tradizione islamica ci sia un accento molto forte sull’importanza della conoscenza. La conquista della conoscenza – e non soltanto la conoscenza religiosa – è addirittura un elemento di giustizia politica. Questo mi sembra un elemento importantissimo. E’ forse questa la ragione per cui l’Islam ha conosciuto dei contrasti religiosi molto forti – quello che tu dicevi prima, che poi diventa anche codice di comportamento e di diritto -, dei contrasti molto forti da cui il mondo islamico è ancora tutt’oggi travagliato, però non ha mai conosciuto, per esempio, un caso Galileo. Non c’è un caso Galileo dell’Islam. C’è una fiorente scienza nell’Islam, che dura per secoli, che non è soltanto acquisizione di patrimonio greco o di tendenze che vengono dall’Oriente, dall’India o dalla Cina, ma è una rielaborazione originale, spregiudicata, coraggiosa, che in molti casi anticipa in maniera chiarissima quella che sarà poi la rivoluzione scientifica di Galileo, di cui parlavamo prima. Quindi è un terreno, devo dire, di un’esperienza per molti versi diversa da quella del Cristianesimo; per quanto ne so io, però.

STUDENTESSA: Scusi. Il fatto che non ci sia un caso Galilei è dato dal fatto che la fede è più forte nell’Islam o al fatto che la dottrina è più forte sul pensiero di coloro che seguono la religione dell’Islam?

Giorello: Ma io direi che forse sta nel fatto che la dottrina è molto più libera, più flessibile. Cioè, mentre curiosamente il codice morale e giuridico è estremamente forte – il codice morale e giuridico -, molto meno si impegna su come è fatto il mondo. Come è fatto il mondo non viene raccontato dalle parole del Corano, è lasciato alla libera indagine di coloro che amano il sapere, cioè dei filosofi o, noi diremmo oggi, degli scienziati. In questo senso forse si possono trovare degli spazi che a noi sono molto chiusi, ma per altri versi, intellettualmente sono molto aperti.

STUDENTESSA: Quindi gli interventi anche del Papa sulla bioetica fermano quello che è lo sviluppo nel mondo occidentale di queste scienze?

Giorello: Ma credo che il Papa sia una grande autorità nel mondo cristiano, che abbia un prestigio anche al di fuori da quello che è lo stretto mondo cattolico e che quindi una presa di posizione del Papa, autorevole nel bene o nel male, possa avere delle enormi conseguenze, tenendo però conto di una cosa, che oggi – quello che dicevo prima – la impresa scientifica non è nelle condizioni di Galileo o di Newton, è una comunità estremamente strutturata, legata a forti interessi industriali, con un potere notevole e un prestigio notevole, perché la scienza degli ultimi tre secoli è passata di successo in successo, anche in successi di cui noi magari abbiamo paura. Esempio: l’energia atomica o piuttosto le biotecnologie.

STUDENTESSA: Scusi, nella scheda, nel filmato, si è parlato di un Dio impotente, di un Dio, diciamo, sconfitto. Perché tra le varie tragedie umane, quindi che sono emblema di questa sconfitta, diciamo, divina, c’è Auschwitz. Cioè perché, in particolare?

Giorello: Direi intanto perché Auschwitz è l’espressione più sistematica dello sterminio. Io non tradurrei scioà con olocausto, io tradurrei con sterminio, in maniera molto più forte. E appunto, dov’è il tuo Dio, in questo momento che sei solo di fronte gli sterminatori? Forse è scomparso, forse ha lasciato i suoi giusti, forse si è ritirato in qualche piega dello spazio-tempo newtoniano e non guarda più quello che succede su questa terra? E’ proprio il punto finale di quel processo, di cui parlava Sergio Quinzio prima. La libertà lasciata, non soltanto agli uomini, ma all’intero creato, fa sì che questa vada per conto proprio. E Dio appunto si ritira in un recesso sempre più lontano e inaccessibile.

STUDENTESSA: Quindi praticamente il male è la negazione dell’onnipotenza divina?

Giorello: Ma guardi, qui sul male e negazione dell’onnipotenza divina, sa si sono rotta la testa molti grandi teologi. C’è chi sosteneva, con molta coerenza, che Dio resta onnipotente, anche di fronte alla sua creazione. La sua creazione è semplicemente qualche cosa che dipende totalmente dalla volontà di Dio, che ha già predestinato ogni destino, anche il tuo, che mi fai questa domanda, e il mio, che ti dò questa risposta. Calvino ha avuto – intendo Giovanni Calvinio, beninteso, il grande riformatore di Ginevra -, ha avuto questa posizione, una posizione molto curiosa anche, molto difficile, perché sembra negare totalmente la libertà dell’uomo. Ci fa forse dei burattini, di fronte a Dio? Oppure, Dio vuole che l’uomo peccasse a cominciare da Adamo? Lo ha preordinato che peccasse. Come diceva un teologo protestante: “Che orribile mistero questo, della predestinazione”. Ma che strana la situazione: i calvinisti, che sembrano così acquiescenti alla volontà di Dio, sono stati quelli che poi, politicamente, sono stati tra i ribelli più coraggiosi nell’affermare diritti e libertà ed economicamente dei grandi imprenditori che hanno lanciato la libera iniziativa. Prendiamo l’oggettino – oggettino mica tanto, un oggettone -: questo è un pastorale, pastorale. Voi non so se avete mai visto lo stemma della città di Basilea. La città di Basilea, una città della Svizzera, ha un pastorale spezzato. Si fece questo stemma quando gli evangelici, ribelli all’autorità del vescovo, che rispondeva a Roma, volendo cambiare i costumi e i riti, cioè fare quella che poi si è chiamata la Riforma Protestante, per convincere il vescovo ad andarsene, gli spezzarono il pastorale sulla schiena. Questa è l’origine appunto dello stemma di Basilea. Adesso il pastorale non lo spezziamo sulla schiena a nessuno, perché farebbe pure male, è anche di metallo. Però questo vuol dire una cosa, come diceva un filosofo protestante, nell’Inghilterra del primo Seicento: i cattolici credono nel libero arbitrio, però si inginocchiano di fronte al re, noi protestanti non crediamo nel libero arbitrio, però ci alziamo in piedi e sappiamo lottare per i nostri diritti. Sta tra voi scegliere con chi volete stare, naturalmente.

STUDENTESSA: Scusi, volevo sapere: l’ateo rifiuta di far parte di una comunità, rifiuta certe dottrine, ma allora come si pone al mondo l’ateo?

Giorello: Ma io intanto non direi che un ateo si rifiuti di far parte di una comunità.

STUDENTESSA: Sì comunque rifiuta una comunità religiosa, non si riconosce più…

Giorello: Non rifiuta. Non si riconosce nella comunità religiosa, ma si può riconoscere in mille altre comunità: in una società sportiva, in un partito politico. Ha una convivenza di cittadino organizzato in uno stato, in una unione di stati, come cittadino dell’umanità, come si può riconoscere chi è musulmano, cattolico, ebreo, protestante e via di seguito. Certo non farà parte della comunità dei credenti o di coloro che seguono un particolare insieme di regole rituali. Ma questo è un problema di chi? E’ un problema dell’ateo? Forse è un problema di chi vuole imporre queste regole a tutta quanta la società, in un programma che si chiama appunto integralista. L’ateo non ha buona vita in un mondo integralista, lotta qualche volta perché un mondo integralista abbassi le sue pretese e si realizzi un mondo un po’ più libero. Oliver Cromwell, che non era un ateo, perché era un puritano, quindi un calvinista di quelli piuttosto decisi, quando gli vennero a dire che un suo sottoposto aveva delle strane idee in materia di religione, era un anabattista, di quelli che pensavano che per salvarsi bisognava battezzarsi o ribattezzarsi da adulti, rispose: “Ma a me non interessa se questo signore è o no un anabattista. Serve bene lo Stato, combatte bene nel nostro esercito e allora da questo punto di vista può far parte benissimo della nostra comunità”, che, in quel caso, era quella sorta di democrazia in armi, che si chiama democrazia di nuovo modello, che riuscì a imporre in Inghilterra, quello che finora è l’unico esempio repubblicano, che quel paese ha avuto nella sua storia.

STUDENTE: Senta se Dio ha concesso la libertà all’uomo, come si spiega il concetto di provvidenza o volontà di Dio, relativa al mondo?

Giorello: Sa dovrebbe chiederlo al mio amico, don Bruno Forte, che ci crede alla Provvidenza, non a me che non ci credo, insomma. Io sono più portato a dar ragione a Quinzio. Se c’è libertà radicale dell’uomo e forse addirittura c’è autonomia nel processo naturale dell’intera natura rispetto al disegno del Signore, questo disegno corre per lo meno il rischio di essere sconfitto. Ma se corre il rischio di essere sconfitto, magari di fatto è sconfitto. Questa è poi la sfida che poneva Quinzio in quell’intervento. Quindi io devo dire che mi resta sempre un po’ oscura la nozione di Provvidenza, alla Manzoni. Certo c’è la Provvidenza, perché alla fine del romanzo Renzo e Lucia si sposano e abbiamo l’happy end. Peccato che siano morti qualche migliaio di persone, nella guerra dei Trenta anni, per non dire delle vittime della peste, eccetera, eccetera, eccetera. Saran stati mica tutti Don Rodrigo quelli che son morti nella peste. Allora, se anche questa Provvidenza c’è, è così al di là della nostra mente, forse le nostre menti finite non la colgono nei suoi disegni profondi, che forse tanto vale restare nel finito e porsi di fronte a quello che non funziona, al dolore, alla sofferenza in atteggiamento puramente laico, di collaborazione anche con chi, chi è credente. Un po’ come l’ufficiale di Cromwell, l’importante era poi come si comportava.

STUDENTE: Io, ritornando al discorso di prima, siccome Lei ha detto che la fede è un dono, volevo sapere se Lei pensa che il credente, il fedele abbia qualcosa in più rispetto l’ateo, e se questo qualcosa sia da invidiare.

Giorello: Sa che i doni son sempre ambigui. Nella grande tradizione antropologica noi sappiamo che un dono può essere anche un peso. Chiacchierando appunto con Bruno Forte, l’impressione che ho avuto è che anche questo dono può essere molto difficile da portare e quindi è schematica l’idea di un credente soddisfatto e di un ateo insoddisfatto. Il mio amico Bruno Forte dice una frase molto bella: che ogni ateo ha dentro un piccolo germoglio, che si pone le domande del credente e ogni credente però ha un ateo che ogni tanto cerca di corrodere questa fede. Credo che in nessuno dei due casi dobbiamo pensare a delle indissolubili ed inossidabili certezze. Ecco, non sono certezze d’acciaio. Son passati questi tempi. Non penso a degli atei che creano una religione di Stato, in cui mettono i credenti tutti in campi di concentramento e non penso che tutti i credenti, tutti i cattolici, visto che siamo in un paese cattolico, complottino per rimettere in piedi la Santa Inquisizione. Credo che queste siano visioni storiche un po’ superate. Credo che questo sia un po’ il tempo del logos, del logo, come dice il Vangelo di Giovanni, e quindi del di-a-logos, del dialogo tra gli uni e gli altri.

STUDENTESSA: Io volevo dire che, secondo me, la fede non è un dono, ma bensì una scelta di vita. E poi secondo me non è vero che in ogni credente c’è un ateo, che è lì nell’angolino e ogni tanto esce. Sono dei dubbi che, diciamo così, assalgono qualsiasi persona umana, sono, diciamo così, dubbi umani che si pongono a seconda della società in cui un uomo vive, quindi sono giusti.

Giorello: Beh, se lei vuol dire che invece di un piccolo ateo ci sono tanti dubbi, non è che una differenza verbale.

STUDENTESSA: E’ un po’ diverso.

Giorello: Se invece lei vuol dire che non si ha il diritto di dubitare, beh, questo è piuttosto una cosa un po’ minacciosa. Infine che uno possa scegliere la fede, beato chi riesce a sceglierla, insomma. Io sono su questo un po’ calvinista, penso che la fede sia un dono dell’Onnipotente, non una scelta umana. Questa è questione di gusti, insomma.

STUDENTESSA: Allora, nel Medioevo abbiamo visto la supremazia dell’auctoritas, cioè un po’ quindi la subordinazione della fede alla ragione. Ora, secondo Lei, qual è quell’evento storico che segna proprio la nascita dell’incompatibilità fra fede e ragione?

Giorello: Ma io, come dicevo, non è che penso tanto a una incompatibilità di fede e ragione, quanto a una fine della pretesa del monopolio della verità. Che è una cosa diversa. Ora, secondo me, una delle grandi crisi, ma crisi di crescita, che segnano la modernità, cioè è proprio la Riforma Protestante, in cui, da motivazioni religiose, cristiane, fortemente cristiane, viene messa in discussione la supremazia di Roma. Certamente non erano dei liberi pensatori né Lutero né Calvino, ma hanno fatto sì che molto dello spirito critico partisse proprio dalla loro coraggiosa rivolta del monopolio della verità. Poi ne volevano uno per conto loro, naturalmente.

STUDENTESSA: Come si mostrano le persone che, come Lei, non hanno fede davanti ad alcuni fenomeni come i miracoli, che, diciamo, adesso sono gli elementi portanti appunto della fede?

Giorello: Sa cosa diceva David Hume “Un garbato scetticismo”. Cioè noi rispettiamo manifestazioni che non spieghiamo, giustamente, ci son molte cose a questo mondo che non spieghiamo, non deridiamo le persone che ci credono, ma, come dire, non è che ci lasciamo convincere. Hume dice: “Un garbato scetticismo”, che non è uno scetticismo aggressivo.

STUDENTESSA: Lei ha detto che è ateo e quindi non crede in un, diciamo, in un essere irrazionale. Io personalmente, va bene, sto attraversando un periodo di crisi, perché, come penso molti ragazzi alla mia età, non so, diciamo, non so precisamente a cosa credere, cioè se esiste questa forza irrazionale, questo essere irrazionale o al contrario. Però quello che io volevo chiederLe, tutti nella vita, insomma a tutti capita di avere momenti difficili e quindi di avere, di provare dei forti dolori. Però magari il credente in quel momento dice: “Dio aiutami”, e quindi magari riesce a darsi un conforto, riesce a pregare e quindi a darsi una spiegazione. Ma l’ateo cioè è più forte del credente, riesce a superare di più le situazioni, senza chiedere aiuto a un essere, insomma, più forte?

Giorello: Secondo me un po’ in tutto quello che abbiamo detto viene fuori l’idea che vale l’antico detto che è bene contare sulle proprie forze nei momenti drammatici, questo sia che uno sia un credente…

STUDENTESSA: Beh, però non tutti sono così forti da riuscirci.

Giorello: Beh, ci si tenta. L’importante è provarci, insomma. L’importante, sa com’è, non è vincere, ma gareggiare, come diceva quell’altro. Allora proviamo a gareggiare contro le avversità, il dolore, le tristezze, le paure e riusciamo forse ad avere, se siamo credenti, una fede più forte, che non sia semplicemente una consolazione delle proprie paure, e se non siamo credenti, a guardarci in faccia lo stesso con gli occhi alti, insomma, senza guardare a terra. E ricordiamoci, visto che abbiam parlato della tradizione soprattutto cristiana, anche se non solo della tradizione cristiana, che nel cristianesimo antico non c’è solo la immagine del Cristo dolorante inchiodato sulla croce, ci sono anche delle espressioni metaforiche, che sono allo stesso tempo di forza e debolezza. Una di queste è la Fenicie. La Fenicie è il grande uccello d’Arabia, che forma il suo Dio nel fuoco e viene distrutta dal fuoco e sempre rinasce. Io credo che avesse ragione un filosofo contemporaneo che diceva che Cristo è un po’ come la Fenicie, fa il nido nel fuoco che la distrugge. Ecco noi dovremmo cercare di sforzarci tutti di essere un po’ come le Fenice, di fronte ai dolori, alle paure, alle passioni. E appunto in questo senso credo che il messaggio di Cristo valga sia per i credenti che per gli atei.

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