Il lavoro delle agenzie di rating ha qualcosa di magico. Trasformare un ‘anonimo’ titolo quotato in borsa, di cui non si conoscono i retroscena e la storia, in un titolo dotato di un certificato che ne attesti la qualità, il ‘rating’ appunto, consente, a chi deve scegliere tra questo e quello, di operare con sufficiente sicurezza senza dover rintracciare ogni volta le sue ‘oscure origini’.

Emettere un giudizio relativo alla bontà ed al grado di affidabilità delle imprese e delle società operanti a livello mondiale nel settore della finanza, del credito, della produzione di beni ecc., è il toccasana per ogni investitore che si rispetti. Ma dopo aver osservato gli scandali che hanno riempito le cronache degli ultimi anni, pur riconoscendo che il mercato del rating ha una sua validità teorica, dobbiamo chiederci se in futuro sarà in grado di autoregolarsi oppure se dovranno intervenire entità esterne per garantirne trasparenza e imparzialità.

Le società di rating che si dividono circa l’80% del mercato sono tre: Standard&Poor’s, Moody’s e Fitch. La maggiore di esse è S&P. Ha avuto come suo pioniere Henry Varnum Poor, che operava alla fine dell’ottocento con società ferroviarie e che nel 1923 iniziò col pubblicare il primo indice borsistico, quello di Wall Street, esistente ancora oggi e noto come ‘S&P 500′. Dopo essere finita in bancarotta durante la ‘Grande depressione’, risorse nel 1941 e si fuse con lo ‘Standard Statistics Bureau’, specializzato in dati e notizie sul credito e la finanza, informazioni che venivano vendute a chi ne faceva richiesta. S&P nel 1962 divenne una ‘public company’ quotandosi in borsa. Nel 1966 venne acquistata dal colosso dell’editoria scientifica e scolastica McGraw-Hill, che oggi è l’unico proprietario. Nel consiglio di amministrazione, oltre all’erede della famiglia McGraw, ci sono i Big Boss della Coca-Cola, dell’IBM, della BP e delle più importanti società farmaceutiche. Tutte aziende quotate, anzi BIG CHIPS, che fanno il mercato. S&P fattura quasi 2 miliardi e mezzo di dollari, circa un quarto del fatturato dell’intero gruppo McGraw-Hill.

La storia delle altre due società, Moody’s e Fitch è simile, e non si discosta molto, nel senso che chi le controlla sono gli stessi soggetti destinatari del giudizio ‘insindacabile’ emesso con la certificazione di ‘rating’.

Le agenzie di rating ricostruiscono i flussi di denaro, prendono nota di chi presta e di chi si indebita, rendono visibile ai più i retroscena finanziari e, cosa ancor più importante, compilano pagelle di merito. Questo lavoro deve ricevere un plauso generale, perchè in via teorica, come già accennato, è un lavoro necessario. Ma, in un settore dove, soprattutto oggi, tutto è molto complicato, vengono dati giudizi al d sopra delle parti e che rispecchiano la realtà oppure alcune volte questi giudizi sono fasulli e rispondono semplicemente a particolari interessi economici? Ed é qui dove sta il vero problema, nella validità morale del giudizio espresso. Ma c’è di più. La situazione si è notevolmente complicata nel momento in cui ci si è resi conto che anche i governi degli stati, piccoli o grandi che siano, dipendono da questi giudizi. Le agenzie di rating diventano così responsabili di decisioni che ricadono direttamente sulle popolazioni e non solo sugli ‘addetti ai lavori’.

In una recente intervista il Big Boss di Fitch ha detto: “…noi non prendiamo posizioni politiche, valutiamo il rischio paese” e giù a bacchettare il debito. Sta di fatto che, ad esempio, ogni volta che viene abbassato il debito dell’Italia, si scatena un pandemonio. Chi è al governo cerca di contrastare la doccia fredda che di solito si scatena da parte degli speculatori sui titoli pubblici e chi è all’opposizione si scatena contro il governo colpevole di non fare abbastanza.

I politici dichiarano, gli economisti sentenziano ed i giornali amplificano. Altro che giudizi tecnici basati su formule matematiche. Il ‘rating’ ormai fa parte del mercato politico e non solo di quello finanziario. Jonathan Macey, professore a Yale, alla Cornell University ed alla Bocconi, grande esperto di diritto commerciale, davanti alla commissione del senato americano dopo il crac Enron e sulle conseguenti responsabilità delle società di rating, ha dichiarato: “ Oggi, non offrono alcuna informazione davvero valida sull’affidabilità delle società, sarebbe meglio che le autorità preposte (la SEC in questo caso) evidenziassero il fenomeno e incentivassero l’abbandono dell’uso del rating ovunque sia possibile”.

Ma l’aspetto più evidente che c’è qualcosa che non va nel meccanismo del ‘rating’ e della sua attribuzione a questo ed a quello, è l’intreccio ampio e diffuso del conflitto di interessi che lega le società che emettono il giudizio ed il destinatario del giudizio stesso. Nel 2004 la SEC conclude l’indagine sul rating con un decalogo che modifica in sostanza la prassi, le procedure e le regole di condotta del meccanismo.

La commissione ha puntato il dito soprattutto su 5 questioni fondamentali:

  1. Le agenzie si fidano troppo spesso delle informazioni delle imprese stesse senza verificarle;
  2. i conflitti di interesse sono dovuti al fatto che a pagare per il rating sono le società stesse che emettono i titoli;
  3. i servizi alle imprese hanno sempre maggior peso;
  4. la trasparenza è troppo scarsa;
  5. ci sono troppi ostacoli per i nuovi arrivati, trattasi di un mondo troppo ‘chiuso’

 

Il codice di condotta emanato dalla SEC non è servito molto, la crisi dovuta dai subprime e dai ‘prodotti derivati’ ne è la prova e poi chi deve “misurare i misuratori”.

Sembra proprio essere questo lo slogan del prossimo futuro, ma chiedere maggiore regolamentazione significa anche ingessare il mercato ed è ben noto il principio che in campo economico non esiste la ‘protezione assoluta’.

 

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