C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, nè che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati [...] e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. [...]

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva di applicare le leggi, provocando qualche piccolo terremoto in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino ad allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi, il sentimento dominante anzichè di soddisfazione per la rivincita della giustiziz, era il sospetto che si trattasse di un regolamaento di conti di un centro di potere contro un altro centro di potere. [...]

In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto, gli onesti erano i soli a farsi sempre degli scrupoli. A chiedersi ad ogni momento che cosa avrebbero dovuto fare.

Questa favola di Italo Calvino, riproposta solo in parte e pubblicata in prima pagina sul quotidiano ‘La Repubblica‘ il 15 marzo 1980 con il titolo di ‘Apologo sull’onestà nel paese di corrotti‘, sembra scritta ieri, come si usa dire. Invece sono passati oltre trent’anni. Molte cose sono cambiate in italia, ma solo sulla superficie delle cose. Giù, nel profondo, tutto è rimasto come lo scrittore denunciava.

Vorrei ricordare una frase di Corrado Alvaro in proposito: La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile.

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