Da sempre il diritto riconosce la “pazzia” come attenuante nel giudicare le azioni criminali di un determinato individuo. L’incapacità totale o parziale di intendere e di volere oppure l’infermità mentale, se riconosciuta, in ogni paese ed in ogni livello di giudizio “scusano” l’imputato fino a considerarlo “quasi” innocente.
Oggi conosciamo i progressi che sono stati raggiunti in campo medico e diagnostico, anche per quanto riguarda il funzionamento del cervello umano. Sono stati evidenziati i rapporti esistenti tra irrazionalità e comportamenti condizionati da anomalie genetico-celebrali.
Emerge piano piano una nuova immagine dell’uomo, non più diviso tra anima e corpo, libero e razionale, ma bensì frutto dell’evoluzione e dell’irrazionalità, dominato dalle passioni, molto meno libero, menomato nelle sue azioni quotidiane da impedimenti neuro-celebrali che uccidono la mente, modificano i pensieri e condizionano i comportamenti, come nel caso di assunzione di droghe.
Da un paio di decenni nelle aule dei tribunali a volte sono comparse tesi difensive che tentano di dimostare una correlazione tra comportamento criminale ed anomalie proprie del cervello. Se fosse provata una menomazione cerebrale, renderebbe l’individuo sotto processo non responsabile della propria condotta ed addirittura non perseguibile penalmente, proprio come nel caso di giovani adolescenti. Sappiamo infatti che i neuroni della corteccia prefrontale raggiungono la piena maturità solo dopo il ventesimo hanno di età, quindi ben fanno i giudici in occasione di reati commessi da giovani individui a riconoscere la semi-incapacità ad intendere e volere.

Ma quando siamo di fronte a soggetti adulti, con qualche problema psichico, la strategia difensiva portata avanti dagli avvocati molte volte ricorre alla tecnologia medica, che oggi è in grado di fornire risonanze magnetiche e tomografie computerizzate, che permettono di comprendere lo stato di salute e le funzionalità di certe aree celebrali. L’uso che solitamente se ne fa di questi documenti é quello di evidenziare lesioni e difetti per consentire ai medici di intervenire per prevenire e curare. Quando però questi documenti servono in tribunale alla difesa per tentare di dimostrare che è intervenuta una causa esterna che ha permesso l’annullamento del proprio controllo volontario, nel caso di situazioni estreme, come infanticidi e pluriassassinii, ben fanno certi giudici a rifiutare il nesso tra danno neuro-celebrale e propensione alla violenza.

Come è possibile, ad esempio, applicare simili attenuanti ad Anders Breivik che nel luglio del 2011 ha assassinato a sangue freddo 77 persone a Oslo senza una motivazione se non quanto dettato da un suo delirio ideologico? In questo caso qualche cosa di orribile deve essere avvenuto nel suo cervello. Forse un tumore ha annebbiato i suoi istinti naturali? Forse non sapremo mai cosa è successo in quel cervello, ma una cosa è certa quel signore dovrà passare i suoi anni ad espiare.

Invece, in casi più ‘normali’ oltre al “mancato adattamento”, in chiave sociologica, che porta i rei a vivere per anni in comunità di recupero, oggi esiste il “malfunzionamento cerebrale”, in chiave neuroscientifica, che, grazie al nascente “neurodiritto”, si sta affermando come incalzante rivoluzione dei concetti giuridici che regolano la nostra società. Questa situazione si prefigura come ineluttabile conseguenza dovuta alla ormai devastante incapacità del cervello di difendersi dagli attacchi della scienza medica.

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